Jacques Rigaut, l’uomo che morì due volte

Irrequietezza e martirio come destino dell’artista

Jacques Rigaut è stato certamente un eccentrico, somigliante solo a se stesso tra i tanti originali di inizio Novecento.
Indossata la maschera insieme ai panni del dandy non li smise più fino alla morte, sia che vivesse sulla soglia dell’indigenza dopo aver sperperato i pochi soldi del padre, sia che vivesse da nababbo, breve parentesi che coincise con il matrimonio, presto naufragato, con l’americana Gladys Barber.

La dissipazione di sé, di tempo, di talento, di danaro gli servivano per tentare di anestetizzare la noia, alcol e droga per cercare di non pensare. Ogni azione doveva essere un gesto, e un gesto era anche la scrittura poiché ogni libro dovrebbe essere un gesto, possibilmente anti-letterario.
Dunque il Dadaismo sembrava un approdo naturale, ma dal ’21 al ’23, fine del movimento, sono più le risse e gli sberleffi che la comunione d’intenti. Distruggeva quasi tutto ciò che scriveva; pochi frammenti trovano posto sulle riviste Action e Literature in Francia e The Little Review negli Stati Uniti.

Si era cucito sulla pelle il suo stesso personaggio, il suo doppio artistico, il suo spettro psicologico, Lord Patchogue: incarnazione di quella fragilità che doveva trovare posto al di fuori di sé. Desiderava essere indimenticabile, indelebile e scomodo per chi si accompagnava a lui. Ancora oggi si ha la sensazione che il suo nome venga sussurrato tra le pagine di storia, quasi fosse stato un’allucinazione. Eppure, Rigaut era uno spirito integramente spezzato. Ha progettato il suo suicidio in ogni minimo particolare, come un abile giocatore che osserva le pedine sulla scacchiera, muovendole attraverso un’invisibile tela di ragno da cui non c’è via di scampo, prima di sferrare il colpo finale. Elegante, preciso, perfetto. 

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Jacques Rigaut fotografato da Man Ray nel 1922.

Il poeta e scrittore Alfred Alvarez, nella sua raccolta di saggi Beyond All This Fiddle (1955-1967), a proposito dell’estremismo nell’arte, scrive che un artista “si mette a rischio ed esplora la propria vulnerabilità… in determinate condizioni di stress, una grande opera d’arte è una sorta di suicidio”. Il poeta, l’artista, sono per Alvarez vittime sacrificali consenzienti, e lo sono perché costrette dalla pressione della crisi della società moderna che rende necessario andare oltre il limite, fino al crollo vero e proprio. 

Nietzsche e Goethe, ben prima di Alvarez e di Rigaut, esploravano la sensibilità umana e il martirio dell’artista, “Muori al momento giusto… Ti raccomando la mia morte, la morte libera, che viene a me perché lo voglio” (Così parlò Zarathustra, 1883). 

Arthur Rimbaud, il “poeta maledetto” sentiva necessario abbracciare la malattia, la sofferenza e la follia per andare oltre, per raggiungere le visioni imprescindibili per la sua arte. A lui si rifà direttamente Harry Crosby, poeta della lost generation americana e contemporaneo dei surrealisti, che si pose l’obiettivo di impazzire per divenire un genio, con il sogno di rendere il proprio suicidio un’opera d’arte. Era affascinato dal binomio amore e morte, amore è morte, tanto da considerare la morte stessa il “matrimonio perfetto”. Come Rigaut si tolse la vita a 31 anni, sparandosi in un hotel a New York insieme alla giovane aristocratica Josephine Noyes Rotch, la sua Fire Princess, nel 1929. 

E infine, Jacques Vaché. Dandy anticonformista, irriverente e libero nonostante l’obbligo dell’arruolamento al fronte e gli orrori della guerra, si suicidò (presumibilmente, non è mai stato chiaro se si sia trattato di una fatalità) con un’overdose di oppio, dopo aver somministrato una dose simile a un compagno d’armi, a soli ventitré anni. Vaché, anch’egli scrittore senza opera, scrisse solo lettere dal fronte a familiari, amici e sodali (Lettere di Guerra, bordolibero 2023), ha sempre ritratto con disincanto e ironia la realtà che lo circondava e il grande décervelage, il decervellamento di massa che rappresentava la guerra. I suoi scritti sono atti di resistenza vitale e spirituale, che mostrano come non si sia piegato né smarrito, ma sia rimasto fedele alla sua naturale irrequietezza.

Attraverso questi personaggi e i loro turbamenti, i loro pensieri e la loro arte, riusciamo a inquadrare meglio ciò che bruciava dentro Rigaut, l’uomo che morì due volte: prima come Jacques Rigaut, poi come Lord Patchogue

Drieu La Rochelle, amico-nemico ossessionato dal personaggio Rigaut, lo ritrasse, facendone il protagonista di tre sue opere: La valise vide, Addio a Gonzague e Fuoco fatuo, romanzo da cui Louis Malle realizzerà il film omonimo nel 1963. 
Per leggere Jacques Rigaut: Agenzia generale del suicidio e altri scritti, bordolibero 2024.

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